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Concorso Nazionale Laghese di Narrativa e Poesia "La Natura è madre. Parole e pensieri per l'ambiente"
XXIV Edizione

Ultimo aggiornamento: 22 Maggio 2023
Clicca qui per il bando completo del concorso
Andamento del concorso:

Resi noti i risultati

Risultati

Sezione Narrativa:

1° Classificato: Stefano Minari con “Fra mare e cielo”.
2° Classificato: Elisabetta Richebbi con “Terra mia”.
3° Classificato: Maurizio Musacchi con “Il tempo dei fenicotteri rosa e…”.


Sezione Poesia:

1° Classificato: Tiziana Monari con “I fuochi bassi dell’autunno”.
2° Classificato: Franca Donà con “Immensa è la parola cielo”.
3° Classificato: Ornella Sala con “La mia terra”.

Opere vincitrici

1° Classificato narrativa Stefano Minari con “Fra mare e cielo”


La vista da qui è bellissima, ma incute paura allo stesso tempo. Prima che si alzi il sole vedi solo le stelle in alto e il loro riflesso nel mare, poi all’improvviso una lama di luce inizia a tagliare il mondo in due: al di sotto l’acqua con i suoi colori cangianti verdi e blu, al di sopra il cielo azzurro con al centro la palla di fuoco. Visto dalla scogliera dove sono nato, il mondo è diviso su tutto l’orizzonte e mamma mi spaventa un po’ quando mi dice che il nostro destino è essere un puntino magico costantemente sospeso fra quel mare così scuro e profondo ed il cielo sconfinato. Non riesco ad immaginarmi quella situazione così precaria e poi i piccoli sognano di diventare grandi e dominare quello che gli sta intorno, mentre pensarsi minuscolo e sospeso in mezzo a due mondi che sembrano infiniti, mi mette a disagio.
Papà è un abile pescatore, se ne va per giorni sul mare per strappargli il cibo per sé e la nostra famiglia. Anche i miei fratelli lo sono e pure mamma se la cava bene, a quanto vedo, dato che il cibo non manca mai. Papà ogni tanto torna stremato, per riposare un poco, e in quei momenti ci racconta di come quell’enorme distesa verde e blu possa diventare improvvisamente bianca di schiuma agitata dal vento e sia difficile resistere, mantenere la giusta direzione. Ma il pesce è lì sotto, non ti fa il favore di salire, perché si gioca una partita fra lui e te e ci sarà un solo vincitore, il più bravo, il più paziente, ma soprattutto quello che resterà vivo.
In alto mare scoppiano burrasche improvvise, il cielo nero è tagliato dai lampi e devi solo pregare che la buona sorte ti aiuti, che tutto passi presto e che se non ti uccide il fulmine, non sia la fame a farlo. Sulla costa gli è capitato spesso di vedere il risultato della potenza delle onde: barche spezzate incastrate sugli scogli, scafi arenati sulla spiaggia, reti da pesca sbrecciate che galleggiano sull’acqua, salvagenti vuoti. E gli viene da pensare che poco prima sopra quelle barche c’erano persone, che dietro a quelle reti c’erano mani che tiravano, con il suo stesso scopo: procurarsi di che vivere. Chissà se quelle vite adesso sono sopra o sotto il mare; chissà se qualcuno sta aspettando a casa chi in realtà si è perduto. È il pensiero che noi siamo lì ad aspettarlo che gli fa conservare la calma, identificare la giusta rotta da tenere e trovare la forza per affrontare la tempesta senza farsi trascinare. Quando racconta queste cose, mamma gli si avvicina e gli si appiccica, come volesse non farlo andare mai più via, anche se sa benissimo che non è possibile.
Anche lei mi condivide spesso tanti ricordi della sua famiglia e dei miei fratelli, alcuni ormai andati lontano e che forse non vedrò mai più. Mi racconta quello che sa del mare e di ciò che
nasconde; cerca di spiegarmi la strana magia di quel mondo senza il quale non potremmo vivere, ma che è pronto ad inghiottirci se non ne rispettiamo le regole. È strano pensare che quell’immensità di acqua sia contemporaneamente la nostra vita e la nostra possibile morte, che ospiti le sirene che ti attraggono col loro canto, ma pure profondità che possono avvolgerti per sempre. Ogni tanto chiedo cosa ci sia là sotto e mamma mi risponde che un giorno vedrò anch’io creature enormi che lo popolano, ma quando mi dice così, mi spavento a morte e preferisco cambiare argomento. Mi fa meno paura chi abita il cielo; quelli li vedo, li sento, si posano ogni tanto vicino alla scogliera, mi sembrano felici.
Mamma però mi mette in guardia. L’azzurro del cielo ed il calore del sole ti rassicurano, ti fanno da guida, sembrano volerti avvolgere in un manto protettivo dai mostri che si nascondono nel mare, ma ambedue possono portarti sulla strada sbagliata, se li insegui ciecamente, e non farti più ritornare a casa. Guardare verso l’alto viene naturale ed è normale sentirsi attratti da quel colore e da quel calore, ma non bisogna perdere di vista quello che veramente è importante e che spesso è sotto di noi e non lo vediamo. Ogni pescatore ama il cielo, ma quello che gli dà la vita è sotto di lui.
Per una piccola mente come la mia, questi sono discorsi enormi, non riesco quasi a tenerli insieme. Mamma però dice che sarà il tempo a insegnarmi come farlo e che l’unico segreto è amare sia il cielo che il mare, perché saranno i miei migliori amici, se ne avrò rispetto. È il destino di tutti quelli come noi e la sola cosa che può metterceli contro è averne paura.
A partire da questo esatto momento.
Oggi è il giorno del mio primo volo. Sono un albatro, un figlio del vento. Ho due ali grandi, per lanciarmi giù da questa scogliera senza paura e restare magicamente sospeso fra il mare ed il cielo.




2° Classificata narrativa Elisabetta Richebbi con “Terra mia”


Terra mia
(di un futuro non tanto lontano, di storia, di radici profonde e di sguardi lontani, di chi parte e di chi resta, di amore, forse di rinascita)


Non vengo, sono vecchia ormai, lasciatemi qui. Lo so che altri più anziani di me sono già partiti e si trovano bene, sono contenta per loro, auguri a tutti voi, io resto qui. Certo che mi dispiace separarci, vi amo con tutta me stessa, non sapete quanto desidererei continuare a vedervi crescere, ancora per un po’, e come vorrei morire avvolta dal vostro affetto, ma sappiamo tutti che non è possibile. Vi amo e vi amerò sempre, lo sapete, ma andate e lasciatemi qui, è meglio anche per voi, sapete anche questo.
Vi guarderò allontanarvi, finché la vostra navicella non sarà un puntino nel cielo, lassù, tra le nuvole, finché non sparirà dalla mia vista. Ascolterò le vostre voci, finché potrò, e da quel momento mi riempirete il cuore, in ogni momento, per sempre.
Mi siederò tutti i giorni al tiepido sole del mattino, sul muretto che costeggia il prato, e finché non sarà troppo caldo starò ad osservare gli uccelli che saltellano tra un filo d’erba e l’altro in cerca di lombrichi e affiderò a loro il mio pensiero per il cielo, agli uccelli e anche ai lombrichi, perché tutti alla fine si incontreranno nel cerchio della vita.

Eccomi qui, come promesso, in questo mattino silenzioso (mi abituerò al silenzio…) a rievocare ancora una volta le parole con le quali vi ho salutato, osservando il cielo azzurro e le rare nuvole indifferenti che si rincorrono in quell’immensa vastità. Affascinata dal dono del prato pieno di margherite sorridenti, respiro il profumo dei fiori che stanno sbocciando, godo del verde brillante dei fili di agrostide, del rosso che spunta dai ciuffi di parietaria tra i sassi del muretto, del volo del calabrone attirato dai rinnovati (ultimi?) fiori, e penso a voi. Non potevo lasciare questa terra, dove sono nata, che ha sostenuto i miei primi passi, che è stata irrigata dalle mie lacrime, che ha accolto il mio corpo caduto, che mi ha dato la gioia del camminare su un terreno morbido o di inerpicarmi su rocce aguzze, regalandomi alfine paesaggi e respiri d’infinito. Questa terra mi è madre, la mia anima è mescolata ad essa. Per voi era diverso, questa terra è stata anche vostra e ha sostenuto i vostri primi passi, certo, ma il vostro sguardo era già oltre, il vostro piede già pronto al salto. Lo sapevo da tempo, per questo non ve ne voglio, sono contenta per voi e vi auguro ogni bene, laggiù dove siete.
Noi non ci lasceremo, terra mia, e quando sarà il momento dovrai custodire la mia anima e accogliere le mie spoglie, farle fecondare entrambe, chissà, forse per qualcuno che la terra non l’avrà lasciata e tenacemente vorrà salvarla e salvare la vita su di essa.
Il sole si sta facendo troppo caldo, devo rientrare, ma prima devo controllare il pozzo, che sia ben chiuso. Le recenti, provvidenziali quasi miracolose piogge, in questa zona rimasta ormai una delle poche non completamente inaridite, hanno dato nuovo vigore al terreno, hanno permesso ai fiori di arrivare a sbocciatura cosicché, forse, i frutti dell’orto riusciranno a terminare la maturazione, se riuscirò a proteggere ed utilizzare bene l’acqua raccolta.
Mentre richiudo accuratamente il pozzo dopo aver controllato il livello dell’acqua, non vedo l’ora di rientrare nella fresca penombra della casa quando un rumore proveniente dai cespugli oltre l’orto attira la mia attenzione. Raccolgo il bastone sempre a portata di mano per spaventare gli animali che si avvicinino per predare le coltivazioni o le provviste, quando mi accorgo che una figura umana sta scendendo di buon passo attraverso il sentiero che conduce al mio terreno. È un giovane, a occhio potrebbe essere un mio nipote, appena mi vede mi sorride e alza la mano in segno di saluto (e di pace), si ferma sul limitare del campo di patate e, sempre a gesti, mi chiede se può avvicinarsi. Gli indico il viottolo che costeggia il campo e lo invito con un gesto accogliente a raggiungermi. Lo osservo trotterellare con un grosso zaino sulle spalle, che lascia cadere pesantemente appena raggiunta la pedana di assi di legno che collega il terreno con l’interno della casa. Si siede sullo scalino, all’ombra del pero che stende i suoi rami fino alla casa, mentre pronuncia affannato un «Grazie, piacere, mi chiamo Noè». «Piacere!» e pronuncio il mio nome mentre entro in casa ridendo. Esco poco dopo con un bicchiere d’acqua fresca che Noè beve avidamente. «Perché ridi?» mi chiede «Niente, scusa, una banalità. Pensavo che un Noè è abbastanza inutile, in questi tempi di siccità… te l’ho detto che era una banalità. Ad ogni modo ho un avo che si chiamava Noè, un bisnonno molto caro… dicono che io assomigli molto a sua sorella Nina, la prozia, che fu tenace e innamorata della vita e della natura. Ma dimmi, da dove vieni? e come mai non sei partito? so che in pochi siamo rimasti, quasi tutti di una certa età, i giovani sono tutti andati…»
Mentre mi parli, mi racconti, mi descrivi con dovizia di particolari e tanto entusiasmo il tuo (vostro, scopro che siete in numero ragguardevole!) visionario progetto, sento che ti aspettavo, che ho fatto bene a rimanere, che posso ancora fare qualcosa per non rinunciare, almeno non rinunciare così facilmente, alla nostra Terra, la nostra casa. Sento che potrò aiutarti a realizzare questo tuo folle e meraviglioso progetto di rendere nuovamente la Terra vivibile, in modi diversi da come abbiamo pensato finora, con armonie e prospettive diverse, e questo mi fa credere che non è persa la speranza che il lavoro che stanno facendo i miei figli e i miei nipoti e tanti altri lassù si possa armonizzare con il lavoro di chi è rimasto qui e magari, un giorno, chissà, possa anche farli ritornare.
Tacciamo, mi accorgo che ti sei assopito, ti lascio riposare. Mi allontano e cammino sotto il sole ormai cocente, mi siedo sulla calda terra smossa, dalla quale spero con tutte le mie forze spunti qualche piantina dai semi gettati qualche giorno fa, e piango. Non avevo ancora pianto dalla vostra partenza, ed ora finalmente le lacrime sgorgano copiose e rigano il mio viso arso dal sole. Piango per chi è partito e per chi è rimasto, ho il cuore gonfio di tristezza e paura, ma al tempo stesso sento crescere in me la speranza e l’orgoglio dell’umanità che si può riscattare, sento che queste lacrime che stanno cadendo tra le zolle riarse dal sole contribuiranno a rendere nuovamente fertile questa nostra povera Terra.




3° Classificato narrativa Maurizio Musacchi con “Il tempo dei fenicotteri rosa e…”


Mi guarda assorto il vecchio, seduto su una panchina del Parco Massari di Ferrara. Io sto procedendo con la mia fida vecchia bicicletta, tagliando per l’entrata di via Ercole d’Este, per poi immettermi in via Porta mare, verso il centro della città. Si tratta di un tragitto che percorro frequentemente, allorché torno dalla Certosa, il maestoso cimitero monumentale ferrarese. Vado a far due chiacchiere coi miei avi: nonni e genitori. Parlare con loro mi rilassa. L’ambiente è silenzioso, solo qualche merlo, o qualche tortora, nei periodi primaverili degli amori, tagliano il silenzio di quei sacri luoghi. Profumi di vecchi e nuovi fiori e delle siepi dei cimiteri con quel caratteristico odore non proprio gradevole dei cipressi ormai, da tempo immemorabile, diventati simboli di cimiteri in Italia. Ma sto divagando, dicevo, all’inizio di questo discorso, di quel vecchio del Parco Massari e del suo osservarmi, poi:<< Mò ti a n’ét brìśa Cìcio, al fiòl dal biciclàr ad Córs Porta Po? (Ma tu non sei Ciccio, il figlio del riparatore di biciclette di Corso Porta Po)>>? Mi fermo, facendo stridere i vecchi pattini della bicicletta, lo guardo:<> Andiamo avanti in dialetto e lui mi spiega di essere Franchìƞ al mazalàr (Franchino il macellaio). Lo scruto per bene. Pochi capelli bianchi coprono malamente una testa lucida di calvizie imperante. Il viso raggrinzito e due occhiali che porta sul suo caratteristico naso aquilino, molto pronunciato, per il quale gli appioppammo lo “scutmàj” (soprannome in dialetto ferrarese): “Canòcia”. Ha un po’ di pancetta. Nel preambolo di dialogo, noto che respira faticosamente, quasi ansimando. Franchìno, uno della “Banda dal Piazàl ad Sanbandét”, eravamo una sottospecie di “Ragazzi della via Pal”. Il piazzale della chiesa di San Benedetto a Ferrara era il nostro luogo d’incontro, di antichi giochi ferraresi caratteristici: “Bàch e paƞdóƞ”, “I vìv e i mòrt”, “Ill bucìƞ”, “La cùt”, “Scàrga l’àśan” e altri. Ma soprattutto, a pallone. A volte con palloni composti da vecchi giornali, pressati a sfera e tenuti insieme da elastici, ricavati da vecchie camere d’aria d’automobile. Tali palloni erano di una compattezza e relativo peso, molto consistenti. Colpi di testa erano evitati, per ovvie ragioni, sistematicamente dai contendenti. Mi siedo accanto al vecchio amico d’un infanzia, trascorsa da oltre mezzo secolo. Parliamo e immancabilmente, come capita a noi “umarèl”, rivanghiamo i tempi nei quali eravamo componenti de “La banda dal Piazàl ad Saƞbandét”. Tra i ricordi più vividi e indimenticabili, ricordiamo le gite in bicicletta. Non avevamo che pochi soldi, le stitiche “sabadine” (paghette) da gestire durante una settimana, che poi, la domenica, si esaurivano con il biglietto per assistere a due film in seconda o terza visione nei vari cinema di second’ordine: Boldini, Diana o San Pietro. Poi, gli immancabili brustolini da consumarsi all’interno. Usciti, s’andava da Orsucci, in via Garibaldi, verso casa nostra, consumando con una pizzetta, ceci o una fetta di castagnaccio, la quasi ultima parte della povera “sabadina”. Però le gite, quelle indimenticabili gite ai Colli Euganei, a Bologna. Una però, ci era rimasta nel cuore, anzi più di una, poiché la ripetemmo più volte. Non poteva mancare l’odierna Porto Garibaldi, ma per noi che ne avevamo sentito il nome dai nostri genitori o anziani di famiglia era Magnavacca. In sostanza poi s’andava a visitare la pineta ove poi sarebbero sorti i Lidi Ferraresi, poi chiamati Comacchiesi. Già Comacchio: emblema dell’infinità sublime, maestosa magica delle Valli. Lì la natura si apriva per noi, turisti squattrinati, portati in quei luoghi magici dalla nostra forza di adolescenti, in biciclette improponibili per i giovani “smart-fonisti” annoiati del giorno d’oggi. La fatica e il sudore conseguente, attiravano sui nostri corpi sfiancati dai quasi sessanta chilometri, zanzare impietose delle nostre problematiche fisiche, anzi. Il cielo era brulicante di rondini. Questi simpatici volatili si ingozzano di migliaia di zanzare al giorno, evidentemente tante, troppe sopravvivevano per torturare i nostri poveri corpi indifesi. Ma ecco, là fra gli acquitrini, la natura si apriva alle meraviglie che non avevamo mai visto fin ad allora, fra arbusti, alberi di tamerici, canne lacustri, ecco ecco…la incommensurabile vera meraviglia di quei magici luoghi. Migliaia di folaghe, aironi, fenicotteri rosa, anatre di svariate specie e i principi della bellezza valliva : i fenicotteri rosa. La prima volta che ci capitò di osservare, a poche decine di metri, tali sortilegi magici della magica madre natura, rimanemmo esterrefatti. Più in là, la pineta, la spiaggia. Le corse a piedi nudi ai limiti della risacca, quel profumo inconfondibile di salsedine del mare, ruggente, a seguito d’una probabile mareggiata notturna, le dune, (oggi purtroppo scomparse, fagocitate da moderni orrendi palazzoni), piccole montagnole ove ci arrampicavamo fin sulle cime per poi rotolare in basso appagati. Ricordo che ci sedevamo esausti ma felici, ad osservare ciò che Dio, o chi per lui, ci aveva regalato. Stanchezza, zanzare, fame, niente, non sentivamo niente. Pochi minuti di muta osservazione, poi i commenti, compiacimento di tali paradisiache visioni che ovviavano ad un pur naturale affaticamento, dovuto a quel mulinare di pedali che ci aveva spinto, alcune ore prima, a raggiungere a tale meraviglie. “Franchìƞ Canòcia”, mi guarda, ansima un po’ e con il caratteristico fischio da asmatico, riprende il discorso, ma invece di guardarmi negli occhi, china la testa e parla al viottolo ove sono io, ancora a cavalcioni della mi fida bicicletta:<< Pensa un po’ “Cìcio”, (quello era il mio “scutmaj-soprannome dei tempi della Banda dal Piazàl). Quei magnifici esemplari, tra i più belli che la natura abbia concepito, i fenicotteri rosa, devono il loro meraviglioso colore al fatto che si cibano prevalentemente di milioni di crostacei di tale meraviglioso colore. La natura, per regalarci tale bellezza cromatica, sacrifica miliardi di essere viventi. Pure le poetiche rondini che volteggiano sopra noi, si nutrono, quindi uccidono milioni di zanzare. Tali antipatici insetti, per le punture fastidiose odiati dall’uomo, in effetti ci succhiano il sangue per poter riprodursi permettendo alle femmine di portar a termine lo sviluppo delle uova che genereranno i loro figli. In sostanza: la bellezza dei colori dei fenicotteri, la poesia del volo delle leggiadre rondini, possono vivere il nostro mondo, mostrarsi tanto poetiche, a discapito di miliardi di piccole creature sacrificate alla bisogna. Nulla di macabro, nell’esposizione della morte, la Dio, o chi per esso, che quella che si chiama catena alimentare. Gli animali carnivori si nutrono di esseri viventi, uccidono per necessità, senza il sacrificio di tantissimi insetti, morirebbero di fame. Madre natura dunque è crudele? Morte per vita? La caccia spietata dei carnivori a creature sacrificali sull’altare del grande mistero della vita e della morte… Magari, consentimi un’amara riflessione, non è mia, tutta la gente di pace realizza tale idea: solo l’uomo, oltre ad uccidere per fame e sprecandone gran parte di tale cibo, uccide per malvagità, odio personale, ma soprattutto, per conquistare territori o privilegi, uccide per guerra e tali stragi sono le uniche ingiustificabili in questo meraviglioso mondo popolato di fenicotteri rosa, rondini e…uomini>>. Non ho altro da aggiungere: anzi avrei tanto, la foschia del tempo custodisce tanto, ma mi fermo lì. Saluto il vecchio amico, mi alzo, spingendo su un pedale della bicicletta, prendo la relativa giusta velocità mi avvio verso casa. Allungo il tratto di strada, percorrendo per quel meraviglioso viale ricavato sulle antiche Mura Estensi. Situato a poche centinaia di metri dal caotico, inquinato, centro storico. Il verde dei prati e alberi, mi circondano in un ideale abbraccio. Mi sento volare… respiro profondamente. Un merlo mi saluta mentre esco dal percorso- mura e mi immetto nella caotica via Bologna, la strada che mi porta a casa… mentre lassù nel cielo mi saluta un piccolo stormo delle ultime rondini, che ancora solcano il cielo della città; scampate chissà come all’inquinamento imperante. Pare quasi che queste creature abbiano voluto mandarmi un messaggio, speranza? auspicio? Voglio crederci: alla fine credere non costa nulla…




1° Classificata poesia Tiziana Monari con “I fuochi bassi dell’autunno”


Ora che il vento ha appuntamento con le foglie
la vedo la vita che si aggrappa come edera sul muro
i fuochi bassi dell’autunno
la pioggia che batte i rampicanti
infuria sui ramagli dell’abete, sui rami dell’alloro


e la luna rispecchia tra i frassini la riva
ci sono i gabbiani a volo teso sopra il mare
la rondine che plana
l’azzurro sopra le chiome degli abeti
la nuvola che si scioglie e si scolora.


I giorni cadono sul viso
ed è bellezza la rosa celata nel giardino tra le case
le stelle che si sciolgono come neve a fiocchi
lo zefiro addormentato in mezzo ai fossi


e noi rasentiamo i segreti della natura
ci affidiamo ad occhi chiusi al plenilunio della notte
e lievi sorridiamo
a bianche primavere che verranno.




2° Classificata poesia Franca Donà con “Immensa è la parola cielo”


Immensa è la parola cielo, qui
dove ali di luce sono sillabe sospese
e gemme preziose scintillano tra i ghiacci,
spettacolo di nevi eterne a governare il mondo.
Quando si ferma il tempo
scorre più veloce l’acqua nel torrente
punge il profumo dell’ortica
e torna, a tratti e forte il vento
a disperdere i pensieri, tra i rami di betulle
e l’oro di ginestre e di ruchette,
l’onda dell’erba sul pendio
piegata al pascolo, e il suono di campane
e campanacci morde l’aria.
Mai così fragile, mai così imponente
questo nostro piccolo respiro,
un raggio di sole trattenuto dentro un palmo.




3° Classificata poesia Ornella Sala con “La mia terra”


Sono tornata alla terra
dove è lieve il passo,
un granello fra le dita
da seminar fecondo
e i miei monti intorno
a segnare il confine
fra il cuore e il mondo.
Ti riconosco nei declivi
dove le viti inanellano filari,
nella zolla spaccata
che rinnova la speranza antica
fatta di sogni e di fatica.
Mani bianche di farina
e aromi di salvia e rosmarini
in pani tondo come la luna,
sui rami di frutti spessi
ciliegie rosse da appendere agli orecchi.
Sereni i tramonti che sfumano piano
nella luce obliqua della sera,
sul fianco del monte a cercare la preda
l’ala del falco che plana leggera.
Lieve il respiro del vento fra le foglie
dove nel raggio opalescente della luna
la stupita meraviglia del silenzio si raccoglie.


Benedetta sia questa terra, la mia,
mai altrove così bella.




Risultati di tutte le edizioni del concorso:
Concorso Nazionale Laghese di Narrativa e Poesia "Stagioni di versi e racconti: l'estate" XXVI Edizione
Concorso Nazionale Laghese di Narrativa e Poesia "Le piccole cose che ci fanno stare bene. Riconoscerle e raccontarle" XXV Edizione
Concorso Nazionale Laghese di Narrativa e Poesia "La Natura è madre. Parole e pensieri per l'ambiente" XXIV Edizione
Concorso Nazionale Laghese di Narrativa e Poesia "Sogni per il mio domani" XXIII Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Vite in Viaggio. Riflessioni, racconti, versi sul personale senso del viaggiare" XXII Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Il mio Paese. Ieri, oggi e domani" XXI Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Racconti diVersi" XX Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "La Famiglia" XIX Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia 2016 XVIII Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia XVII Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia  XVI Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia 2013 XV Edizione. Tema del concorso: Nel mondo dei sentimenti: il Dono.
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Nel mondo dei sentimenti: L'amore" XIV Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia 2011 XIII Edizione
Concorso laghese di narrativa e poesia XI Edizione
 
 
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